Gino De Dominicis. Tra genio e follia!


Gino de Dominicis è nato ad Ancona nel 1947. L’artista non è facilmente inquadrabile in nessun movimento; per De Dominicis l’arte è qualcosa di mentale. Mentale, appunto, non concettuale: lui stesso odiava la definizione di concettuale e affermava che il termine ha avuto successo solo perché ricordava nomi molto famosi in italia come Concetta e Concettina.





Skull with long nose, Gino De Dominicis. L’iimagine, cc, è stata ricavata dal sito: wikipedia.org

Non è possibile inserire l’operato di De Dominicis entro la cornice di una specifica tendenza artistica, poiché, ciò, sarebbe contrario alla sua poetica. Quando veniva intervistato e gli veniva chiesta la sua posizione nei riguardi dell’arte contemporanea l’artista rispondeva: “seduta quando dipingo quadri di piccole dimensioni e in piedi quando li dipingo di grandi dimensioni”. Il suo “non volersi inquadrare” in nessun movimento della storia dell’arte coincide appieno con la sua poetica; un’opera d’arte, per essere immortale, deve vivere sempre nel presente: inserirla in una dimensione spazio-temporale, ovvero, entro un processo artistico evolutivo così come teorizzato dal Vasari in avanti, equivarrebbe alla sua morte, all’impossibilità di vivere in un eterno presente. Con Gino De Dominicis l’arte diventa filosofia; è un artista filosofo, un mago, che ricorre al trucco per rendere possibile l’impossibile, per trasportarci al di fuori del normale corso della vita; la sua non è un’arte che riflette sull’arte, ma un’arte che riflette sulla vita. Gino scardina le poetiche poveriste e concettuali introducendo elementi di gioco e di ironia che rendono le sue opere paradossali, come nel caso de la mozzarella in carrozza o come nella sua performance Tentativo di far formare dei quadrati anzichè dei cerchi intorno a un sasso che cade nell’acqua (le immagini di tutte le opere sono visualizzabili in fondo all’articolo). La sua opera vive, dunque, in un eterno hic e nunc e questo ci fa comprendere la sua avversità alla fotografia, intesa come riproduzione che nulla ha a che fare con l’opera viva e appare più simile alla documentazione della sua morte. Alla luce di ciò si comprende, anche, la decisione, presa poco prima della sua morte, di distruggere tutto il suo archivio, in modo tale che le sue opere restassero senza data, al fine di rendere impossibile un catalogo ragionato e far vivere i suoi lavori in un eterno presente.
Il rovesciamento di tutte le certezze crea una sospensione temporale che sconfigge la morte e, in quest’ottica, si possono inserire i lavori che rappresentano la consacrazione dell’artista. Alla mostra del 1969, tenuta all’Attico di Fabio Sargentini, sito nel garage di via Cesare Beccaria a Roma, egli mostrò i suoi primi lavori basati sull’inafferrabilità dell’arte. Un chiodo sospeso ad una parete, un Cubo Invisibile, Un Cilindro invisibile; un gancio tiene sospeso un secchio d’acqua come se quest’ultima potesse essere solida e reggere il suo peso, una pietra (Aspettativa di un casuale movimento molecolare generale in una sola direzione tale da generare un movimento spontaneo del materiale) e infine la Palla di gomma (caduta da 2 metri) nell’attimo immediatamente precedente il rimbalzo. Afferma Gabriel Guercio: “La complessità di questi lavori, pur composti da due semplici elementi, mi sembra risiedere in un doppio e in un certo senso contraddittorio statuto: da una parte la messa in trasparenza dell’invisibile movimento, virtuale nella palla, un auspicio nella pietra; dall’altra il potere del linguaggio dell’arte di fissare l’attimo di immobilità”. Il tutto suggellato da un manifesto funebre (il manifesto della mostra) che annuncia la propria morte. La data sul manifesto, novembre 1969, corrisponde a quella della mostra. Queste opere ritornano in uno dei lavori più controversi dell’artista, ovvero: seconda soluzione di immortalità, l’universo è immobile. Si tratta dell’esposizione avvenuta alla Biennale di Venezia inaugurata l’8 giugno 1972. L’opera diventa famosa per l’esposizione del “mongoloide”, termine utilizzato dai cronisti dell’epoca, ovvero Paolo Rosa, ragazzo affetto dalla sindrome di Down. Si tratta di un’opera esemplare di De Dominicis, summa di tutto il suo lavoro precedente. Naturalmente l’opera venne intesa come un affronto e ciò causò l’immediata reazione della stampa e dell’opinione pubblica; il caso del mongoloide rimbalzò da un quotidiano all’altro, spesso contorcendo la vera opera e presentando una fotografia di Paolo Rosa, il giovane Dawn usato dall’artista nell’installazione, con attaccato al collo un cartellino riportante il titolo, seduto isolato ad un angolo della stanza. In realtà non si comprese il significato profondo dell’installazione, che non può essere intesa osservando la singola figura di Rosa, ma bisogna osservare, anche, le opere poste di fronte a lui, ovvero la palla, il cubo e la pietra. In “Foto ricordo” gli elementi sono perfettamente visibili, così come la donna alla destra, che nell’atto di mettersi o togliersi gli occhiali, ci fa entrare nella dinamica di una doppia prospettiva dell’opera, ovvero quella interna (Rosa che vede e diventa garante delle opere ai suoi piedi) e quella esterna, la donna che osserva ciò che ha dinanzi in una prospettiva differente. De Dominicis fu costretto ad allontanare, dopo qualche ora, Rosa dalla stanza. Una volta escluso, però, la sua intera istallazione risultava priva di senso, al punto tale che chiuse l’intera ala a lui dedicata. De D. si difese affermando che lui non aveva esposto un mongoloide, bensì aveva creato un’opera che comprendeva, nel suo insieme, anche, le opere esposte di fronte a lui. Per l’artista la sindrome di Down non è una malattia, bensì uno stato diverso dell’essere; il down ha una diversa percezione del tempo e forse non ha neppure la percezione della morte. Rosa percepisce il tempo in maniera istantanea e, come afferma Achille Bonito Oliva, “l’istante annulla il tempo, sospende la continuità e impedisce la morte”. In questo senso va intesa, anche, una prima “seconda soluzione di immortalità”, esposta nel 1970 alla Galleria Toselli di Milano. Si trattava di un gatto con attaccato un cartellino riportante il titolo dell’opera: il gatto, in quanto animale, non avendo la percezione del tempo, riesce a vivere un eterno presente e, come Rosa, essere per questo immortale. L’opera d’arte, per essere immortale, deve rompere la sequenzialità di passato, presente e futuro. Rosa percepisce il mondo, e le opere poste di fronte a lui, in maniera diversa, altra, rispetto a quella comune (ciò è anche dimostrato da Foto ricordo). Rosa è un uomo, diverso dagli altri e per questo tagliato fuori dalla società, che vive una vita estranea rispetto a quella della società circostante. Chi osserva Rosa si ritrova spiazzato, si può riconoscere in lui in quanto essere umano, ma contemporaneamente si rende manifesta la diversità da lui. Chi lo vede non deve più riferirsi alla propria esperienza, alla propria cultura, alla propria storia o alla propria biografia; Rosa fa precipitare in un vuoto nel quale si scopre di non appartenere allo stesso spazio-tempo e che non si è dello stesso mondo o della stessa realtà. Come fa ben notare Gabriel Guercio, chi osserva l’opera deve anche accettare di essere visto dall’opera e ciò spinge ad un vedere senza vedersi, dove è inutile il poter affermare “ci sono” o “ci siamo”, dove non c’è più un ordine accettato e unico di spazio, tempo e luogo. L’opera d’arte si pone nella sua estraneità, come qualcosa senza tempo e per questo eterna. L’opera d’arte deve riuscire a fissare l’attimo atemporale, rompendo il normale corso delle cose. Su questa idea si basano, anche, le altre opere presenti alla biennale, dalla palla fissata in un eterno istante, in un “presente infinitamente trattenuto tra il prima e il dopo”, alla pietra che attende eternamente un movimento molecolare unidirezionale, al cubo in un tempo invisibile e concreto, sino al giovane e il vecchio seduti frontalmente a 12 metri dal suolo: in quella sala si entrava in una dimensione magica, atemporale e dunque immortale. Le opere, in quanto sospese tra una dimensione e l’altra, vanno intese come pause spazio-temporali. Il vecchio e il giovane, ad esempio, essendo sospesi in aria, annullano la forza di gravità; l’annullamento della gravità annulla lo scorrere del tempo. Le opere d’arte non hanno nemmeno bisogno di essere viste per esistere, come dimostra specchio che tutto riflette tranne gli esseri viventi. L’opera viene presentata nel 1988 alla galleria Lia Rumma di Napoli. Guercio la descrive così: “riprendendo il suo Specchio che tutto riflette tranne gli esseri viventi (1969, poi distrutto), l’artista realizza una completa cancellazione del pubblico dell’arte e di ogni elemento in movimento nello spazio espositivo. Nella sala semibuia, un proiettore illuminava una tavola a tempera nera, con Urvasi e Gilgamesh, di profilo, a matita grigio-argento, e un poliedro rilucente all’altezza dei loro occhi. Sulla parete opposta al dipinto, una cornice ovale aveva tutta l’apparenza di uno specchio; avvicinandosi, però, ci si rendeva conto che lo ‘specchio’ rifletteva la sala e il dipinto, ma non i visitatori. Scoprire il trucco, che furono costruiti due spazi simmetrici con due dipinti identici, è meno importante di coglierne i risultati. Lo ‘specchio’, che tutto riflette tranne le presenze mobili e viventi, disloca e proietta entrambe le opere d’arte in una dimensione totalmente altra da quella degli spettatori. Evidenziando la permanenza dei due dipinti contro la transitorietà degli spettatori, esso rafforza la prospettiva di un’arte senza tempo e pubblico determinati, che si sottrae ad un predeterminato spazio tempo, mostrando il desiderio di contrastare la morte”. L’arte entra nello spazio della vita; da oggetto inerte e morto diventa vivo, come ne “Lo Zodiaco” del 1971. Le immagini celesti entrano nel mondo della vita, concretizzandosi tramite veri animali e vere figure umane. Lo zodiaco è qui e ora e questa sua presenza arresta il suo corso che normalmente è in divenire, poiché le raffigurazioni zodiacali denotano lo scorrere del tempo. E che il tempo si possa fermare è anche dimostrato da un opera precedente la seconda soluzione, ovvero come io vedo questo tavolo, questa bottiglia, queste posate, questo bicchiere e questa pianta, presentata all’Attico nel 1970. Il tempo dell’opera si ferma a quello della sua creazione, poiché invita all’accettazione di un’immagine così come era al tempo della sua creazione e così come verrà sempre vista in ogni momento della sua fruizione. Ma il tempo si arresta anche nella galleria di Pio Monti a Roma, come lui stesso afferma: “Ricordo le due mostre, identiche, ripetute nella mia galleria a distanza di un anno esatto, 14 gennaio ‘77/14 gennaio ’78, con una pietra enorme, un’asta in bilico, due vasetti che rappresentavano l’ubiquità, una piramide invisibile! Chi era venuto alla prima mostra tornando nello stesso luogo e trovandosi dinanzi agli oggetti nella medesima posizione ne era frastornato, come se il tempo, appunto, si fosse arrestato!”.
Ed il tempo torna protagonista nell’opera “il tempo, lo sbaglio, lo spazio”. De Dominicis scrive, in una delle versioni della “Lettera sull’immortalità”, che: “Non potendo intervenire direttamente su se stesso per fermare il corso inesorabile del proprio ‘tempo interno’ e allungare la propria vita, l’uomo ha inventato dei mezzi che lo rendessero più veloce: intervenendo così sullo spazio, indirettamente è riuscito a intervenire sul tempo. Questa operazione potrebbe essere giustificata però solo se lo spazio fosse finito e la nostra fantasia limitata. Purtroppo invece è solo un palliativo e un gravissimo errore”. Queste parole costituiscono la migliore spiegazione per Il tempo, lo sbaglio, lo spazio. L’uomo, infatti, è caduto nell’errore di credere di poter battere il tempo accorciando gli spazi tramite la velocità, rappresentata dai pattini. Ma non è così poiché, come si evince, la morte ha segnato il destino di entrambi, uomo e animale indifferentemente.
Le opere d’arte, dunque, si pongono come alterità rispetto al tempo e al susseguirsi di epoche storiche, stili e tecniche e, come lui stesso afferma: “le opere d’arte sono tutte contemporanee. Altrimenti sarebbe come se, vedendo arrivare un’automobile del 1920, si decidesse di attraversare tranquillamente la strada pensando di non poter essere investiti, essendo quell’automobile di un’altra epoca. Mentre non è così. Per le opere d’arte è lo stesso, sono sempre “in diretta”.”
Agli inizia degli anni Ottanta, come è noto, c’è stato un ritorno preponderante della pittura, in contrasto al periodo minimal, concettuale, poverista e performativo che ha caratterizzato il decennio precedente. Gli artisti di quelle tendenze, almeno quelli più sprovveduti, sono stati sconvolti da ciò. Ma De Dominicis no; per L’artista, contrariamente alle dottrine teologiche dell’evangelista Giovanni, l’immagine è al principio di tutte le cose, è il veicolo originario per la conoscenza. La fine degli anni Settanta coincide, per l’Artista, alla riscoperta della popolazione sumera; De Dominicis scopre numerose affinità con la cultura sumera, in particolare con la figura di Gigamesh, re sumero che, abbandonate le sue ricchezze, parte in un viaggio alla ricerca dell’immortalità del corpo. Inoltre, in linea con l’idea che le opere d’arte non possono avere una data di nascita esatte, poichè vivono in eterno, le origini del popolo sumero sono ignote. C’è chi ritiene, e l’artista vi credeva fermamente, che i sumeri provenissero da un ipotetico dodicesimo pianeta del sistema solare. In questi anni, così, i suoi quadri e le sue opere si caratterizzano per la presenza di volti ignoti, di corpi antropomorfi che sembrerebbero raffigurare quella razza immortale che De Dominicis auspicava. Esseri dalle sembianze aliene e umane contemporaneamente, eterni nella loro immagine e nella loro bellezza. Gilgamesh è, spesso, rappresentato insieme ad Urvasi, dea indiana della bellezza. Urvasi, in quanto donna, porta in grembo il germe della creazione e per questo, come un artista, è archetipo della creazione. L’idea del tempo di De D. è paradossale quanto geniale. Era solito affermare: “io sono più antico di un artista egiziano”. Questa idea ce la spiega bene Vittorio Sgarbi, il quale afferma che gli antichi, essendo nati secoli prima di noi, sono i giovani della storia; noi, essendo nati secoli dopo, siamo i vecchi. Si può pensare che, essendo i giovani, fossero più vicini alla verità, poichè non ancora corrotti dagli sbagli della società odierna. De Dominicis ricercava la verità nell’universo, credendo fermamente nell’esistenza degli alieni. In quest’ordine rientra la famosa “calamita cosmica“, o più amichevolmente “lo scheletrone”, ovvero uno scheletro umano di 24 metri, con un naso conico e aquilino, che regge sulla mano un’asta dorata in bilico. L’asta non solo rovescia il principio della gravità, ma si configura come ricevitore di ondi e suoni dell’universo.
La morte dell’artista, avvenuta il 29 novembre del 1998, è avvolta nel mistero e ha contribuito alla mitizzazione della sua figura.

Fonti principali:
– Gabriele Guercio (a cura di), Gino De Dominicis. Scritti sull’opera e riflessioni dell’artista, Torino, Allemandi, 2014.
– Gabriele Guercio , L’ arte non evolve. L’universo immobile di Gino De Dominicis, Johan & Levi, 2015.
– Giorgio Treves, L`immortale – Gino De Dominicis, documentario di Rai Arte, 2011.
– L’immortalità, omaggio a De Dominicis con Pio Monti e Franco Rustichelli, video della conferenza tenutasi presso il Chiostro di Sant’Agostino (Civitanova Alta), a cura di Popsophia – Filosofia del Contemporaneo, 16 luglio 2011.



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